A proposito di incipit – Come inizia Cent’anni di solitudine
Si potrebbero descrivere i lettori in due gruppi: quelli che scelgono cosa leggere in base all’immagine di copertina, al titolo o alla sinossi, e quelli che in libreria non possono fare a meno di aprire il volume che hanno tra le mani per leggere il primo periodo o la prima pagina.
Agli appartenenti al secondo gruppo non interessa tanto sapere di cosa parla l’autore, quanto come parla. Vogliono assaporarne la voce, perché, se lo sceglieranno, procederanno insieme per un percorso di qualche centinaio di pagine.
Esistono incipit così famosi da essere noti anche a chi non ha letto la relativa opera, come per esempio: Chiamatemi Ismaele (da Moby Dick); Per molto tempo, mi sono coricato presto la sera (dalla Recherche di Proust, ripreso da Sergio Leone in C’era una volta in America); Tutte le famiglie felici si assomigliano tra loro, ogni famiglia infelice è infelice a suo modo (da Anna Karenina).
Dell’importanza dell’inizio di una storia ha trattato Italo Calvino nelle sue Lezioni americane (vedi link) (nell’appendice intitolata Cominciare e finire; molto famoso è il suo discorso sul momento del distacco dalla molteplicità dei possibili).
In realtà praticamente ogni autore (da Flaubert a Raymond Carver, da Čechov a Jack London) ha sottolineato quanto sia fondamentale un buon incipit.
Parecchi testi forniscono suggerimenti per ottenere un buon incipit, oltre naturalmente a un elenco dei modelli possibili, ma questa sezione del sito non offre indicazioni simili; si propone invece di effettuare consigli di lettura che sfruttino proprio le parole dell’autore – senza aggiungere particolari analisi del testo né considerazioni su cosa volesse dire l’autore –, come se chi legge potesse tenere il libro in mano e assaporarne l’inizio.
Il terzo romanzo di cui si propone l’incipit è il più famoso di Gabriel García Márquez: Cent’anni di solitudine.
Cent’anni di solitudine è la seconda opera più importante di sempre mai scritta in lingua spagnola (votato in occasione del IV Congresso internazionale della Lingua Spagnola tenutosi a Cartagena nel 2007); è un romanzo che interpreta metaforicamente la storia della Colombia; è un romanzo sulla cui scrittura girano varie leggende (alcune proposte dallo stesso García Márquez); soprattutto, Cent’anni di solitudine è un romanzo che inizia così…
Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonnello Aureliano Buendía si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio. Macondo era allora un villaggio di venti case di argilla e di canna selvatica costruito sulla riva di un fiume dalle acque diafane che rovinavano per un letto di pietre levigate, bianche ed enormi come uova preistoriche. Il mondo era così recente, che molte cose erano prive di nome, e per citarle bisognava indicarle col dito. Tutti gli anni, verso il mese di marzo, una famiglia di zingari cenciosi piantava la tenda vicino al villaggio, e con grande frastuono di zufoli e tamburi faceva conoscere le nuove invenzioni. Prima portarono la calamita. Uno zingaro corpulento, con la barba arruffata e mani di passero, che si presentò col nome di Melquíades, diede una truculenta manifestazione pubblica di quella che egli stesso chiamava l’ottava meraviglia dei savi alchimisti della Macedonia. Andò di casa in casa trascinando due lingotti metallici, e tutti sbigottirono vedendo che i paioli, le padelle, le molle del focolare e i treppiedi cadevano dal loro posto, e i legni scricchiolavano per la disperazione dei chiodi e delle viti che cercavano di schiavarsi, e perfino gli oggetti perduti da molto tempo ricomparivano dove pur erano stati lungamente cercati, e si trascinavano in turbolenta sbracata dietro ai ferri magici di Melquíades.
<<Le cose hanno vita propria>> proclamava lo zingaro con aspro accento, <<si tratta soltanto di risvegliargli l’anima.>>
Consiglio, in conclusione, una bella intervista all’autore colombiano realizzata da Giovanni Minoli presente su youtube
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