Le pazze – Un incontro con le Madri de Plaza de Mayo
Uno dei primi saggi che ho letto è Le pazze. Un incontro con le Madri de Plaza de Mayo della scrittrice bolognese Daniela Padoan.
È un saggio a cui mi ha portato la narrativa, perché in ogni romanziere sudamericano ho sempre avvertito l’indignazione e il dolore per la mancanza di libertà causata dalle dittature militari che hanno caratterizzato buona parte del Novecento nell’America Latina.
In Argentina, nella lotta per i diritti civili, c’è stato l’impegno straordinario delle Madri de Plaza de Mayo, una associazione formata dalle madri dei desaparecidos, ossia i dissidenti scomparsi durante la dittatura militare tra il 1976 e il 1983.
Daniela Padoan ripercorre la storia del Paese e dei suoi abitanti partendo prima del golpe che portò alla presidenza del generale Videla e arrivando al presente. Il libro è la storia di un incontro con cinque delle Madri de Plaza de Mayo – Hebe de Bonafini, Beba Petrini, Cota Fiigelmüller, Juanita Pargament e Marcela Antonia de Ledo – le cui testimonianze trovano spazio tra la ricostruzione storica dell’autrice. È soprattutto un racconto sulla resistenza, più che sulle vittime – come Daniela Padoan scrive nella premessa – la resistenza della vita sulla morte, del dar vita materno sul dar morte dei regimi.
Tra i tanti, interessantissimi, punti toccati mi ha colpito molto la collettivizzazione della maternità. A un certo punto le Madri smettono di portare in piazza le foto dei propri figli e levano i loro nomi dei fazzoletti. Hebe spiega il motivo:
Sopportare la scomparsa di un figlio non si può spiegare, non me lo spiego nemmeno io; noi Madri non ce lo spieghiamo ancora. Però, quando abbiamo cominciato a vedere che c’erano madri che non venivano in piazza e che cercavano persino di ignorare la scomparsa, abbiamo capito che non potevamo lasciare soli tutti quei ragazzi, quelle ragazze che non avevano nessuno a lottare per loro. Abbiamo capito che dovevamo farci madri di tutti. È stato un passaggio lungo, che abbiamo chiamato socializzazione della maternità, anche se le parole, come sempre, sono venute dopo; prima è venuto il sentimento che ci ha spinte. Così man mano, lentamente, non tutte allo stesso tempo, siamo diventate madri dei trentamila desaparecidos. Quei figli non li hanno portati via perché erano medici, o avvocati o operai o studenti: li hanno portati via perché erano rivoluzionari; per questo noi siamo madri di tutti, li rivendichiamo tutti, li amiamo tutti, li difendiamo tutti.
Anche la decisione di socializzare la maternità fu a suo modo rivoluzionaria. Veniva la stampa a intervistarci in piazza, e una madre diceva, mio figlio era scienziato, e l’altra, mio figlio era avvocato, si occupava di diritto internazionale… No, così era terribile, era ingiusto, e creava una gran confusione nella gente; come ti ho detto, non se li erano certo presi perché erano avvocati o scienziati, o facchini. C’erano madri che dicevano, mio figlio non ha fatto niente. E perché se lo sono portato via, allora, se non ha fatto niente?
Aveva fatto, certo che aveva fatto.
[…] Li avevano presi perché stavano facendo qualcosa; ed era qualcosa di giusto e di bello, in qualunque ambito lo stessero facendo. Non possiamo dire che i figli buoni erano quelli che andavano a insegnare nelle bidonville, che facevano magari uno spettacolo teatrale, che scrivevano un articolo un po’ sbilanciato su un giornale, e che invece quelli che hanno scelto la resistenza armata al fascismo, alla tortura, alla morte nei campi, erano cattivi. Tutti hanno resistito per la libertà del nostro paese, come hanno creduto e come hanno potuto, e noi li abbracciamo tutti. La socializzazione della maternità fu decidere che non si poteva scegliere, perché eravamo madri di tutti.