Carrère tra La settimana bianca e L’avversario
Il primo libro di Emmanuel Carrère che ho letto, qualche anno fa, su consiglio di un amico, è stato Vite che non sono la mia.
Mi è piaciuto tanto da spingermi in libreria alla ricerca di altre sue opere. Senza prima documentarmi – cosa per me inusuale – ho scelto La settimana bianca e L’avversario, leggendoli esattamente in quest’ordine. In maniera del tutto casuale, ho avuto la fortuna di assaporare un pre e un post della produzione dell’autore parigino, attraverso due libri che condividono il punto di partenza ma prendono direzioni opposte.
L’origine è un fatto di cronaca: nel gennaio del 1993 un uomo, Jean-Claude Romand, uccide la moglie, i figli, i propri genitori, perfino il cane, e tenta di togliersi la vita. Non riuscendoci, viene arrestato per poi, nel luglio del 1996, essere condannato all’ergastolo. Una strage familiare come – purtroppo – tante altre, ma ciò che stupisce, e a cui si fa fatica a credere, è che in precedenza Romand ha finto per ben diciassette anni di lavorare come medico. In realtà aveva fallito l’ammissione al secondo anno, e da lì lasciato gli studi.
Nel 1993 Carrère, pur non avendo la fama internazionale che raggiungerà in seguito, può vantare una solida carriera di autore di saggi e opere di pura fiction. Ma è anche un uomo che conosce la depressione e i conflitti familiari (si vedano appunto Vite che non sono la mia e La vita come un romanzo russo), e rimane colpito più di altri dall’efferatezza del crimine commesso da Romand.
La mattina del sabato 9 gennaio 1993, mentre Jean-Claude Romand uccideva i suoi figli, io ero a una riunione all’asilo di Gabriel, il mio figlio maggiore, insieme a tutta la famiglia. Gabriel aveva cinque anni, la stessa età di Antoine Romand. Più tardi siamo andati a pranzo dai miei genitori, e Romand dai suoi. Dopo mangiato ha ucciso anche loro. Ho trascorso da solo, nel mio studio, il pom eriggio del sabato e l’intera domenica, in genere dedicati alla vita familiare, perché stavo finendo un libro a cui lavoravo da un anno: la biografia dello scrittore di fantascienza Philip K. Dick. L’ultimo capitolo raccontava i giorni che lo scrittore aveva passato in coma prima di morire. Ho finito il martedì sera, e il mercoledì mattina ho letto il primo articolo di <<Libération>> sul caso Romand.
Carrère legge le notizie sulla vita di Romand, e le interviste agli increduli conoscenti dell’uomo. Presa la decisione di scrivere sul suo caso, gli invia una lettera, perché alla domanda su che cosa gli passasse per la testa durante le giornate in cui gli altri lo credevano in ufficio, giornate che non trascorreva, come si era ipotizzato inizialmente, trafficando armi o segreti industriali, ma camminando nei boschi, nessun altro – testimoni, giudice istruttore, psichiatri – può rispondere.
Romand, però, non risponde alla lettera. Carrère contatta il suo avvocato, ma inutilmente. Comincia allora un romanzo ispirato a questa vicenda, cambiando nomi, luoghi, circostanze. Nasce così La settimana bianca.
Ero solo, in una casetta in Bretagna, davanti al computer, ha raccontato una volta Carrère, e a mano a mano che procedevo nella storia ero sempre più terrorizzato.
La settimana bianca, che ruota intorno all’immagine di un padre assassino che vaga da solo in mezzo alla neve, otterrà un buon riscontro di pubblico e critica, e sarà l’ultima opera puramente narrativa di Carrère.
Nel 1995, infatti (stesso anno di uscita in Francia de La settimana bianca), Carrère riceve una lettera da Jean-Claude Romand, che si dichiara disponibile a incontrarlo. Carrère entra in contatto con l’uomo, e segue il processo. Inizia a scrivere della vicenda, sente di doverlo fare, eppure a un certo punto si blocca, come rivela allo stesso Romand in una lettera del novembre 1996.
[…] A differenza di quanto pensavo all’inizio, il problema per me non è reperire informazioni, ma trovare una mia collocazione rispetto alla sua storia. Quando mi sono messo al lavoro, credevo di poter eludere il problema cucendo insieme pezzo per pezzo tutto quello che sapevo e sforzandomi di restare obiettivo. Ma in una vicenda come questa l’obiettivo è una mera illusione. Dovevo scegliere un punto di vista.
Carrère aggiunge di aver tentato di usare il punto di vista di Luc, amico dei Romand, ma di aver capito presto che gli era impossibile farlo. Accantona il lavoro per due anni, finché si rimette all’opera, utilizzando il proprio punto di vista. Narrerà infatti ne L’avversario la vicenda in prima persona, a proprio nome, raccontando le proprie esperienze di narratore.
Inventerà un modo di mettersi dentro una propria opera, modo che lo renderà famoso in tutto il mondo, e che sarà analizzato da critici letterari e insegnanti di scrittura creativa.
Grazie a questo stile, che l’autore francese continuerà a usare nel prosieguo della sua carriera, L’avversario non è né una cronaca né un trattato di psicologia né un monologo di riflessioni sulla vita (o forse è – tra le altre cose – un po’ di tutte e tre).
Come scrive in conclusione lui stesso:
Ho pensato che scrivere questa storia non poteva essere altro che un crimine o una preghiera.
Entrambe le opere in questione sono state portate sul grande schermo. La classe de niege risale al 1998, mentre è del 2002 L’avversario, con Daniel Auteli nei panni del protagonista
Consigli di lettura su altri romanzi in cui l’arte di scrivere è al centro dell’opera:
Quella sera dorata di Peter Cameron
Lo scrittore fantasma di Philip Roth