Una morte raccontata da Javier Marías

Scrivere narrativa significa – tra le altre cose – inventare un universo, e se è vero che la creazione di qualunque cosa è sempre difficilissima, in determinati casi l’asticella si alza ancora di più.

Per esempio è molto complicato descrivere scene di sesso – l’ovvio e il retorico sono sempre pericolosamente dietro l’angolo, per non parlare del volgare – e spesso anche autori navigati preferiscono glissare, raccontando il prima e il dopo dell’atto sessuale.

Lo stesso vale per le scene di morte. Anche in questo caso molti scrittori preferiscono allontanare la lente d’ingrandimento dalla scena in questione, riportandola velocemente per poi soffermarsi sulle conseguenze, evitando così i tanti rischi che la descrizione di un momento così importante porta con sé.

Naturalmente, però, i grandi sanno raccontare tutto, ognuno a modo proprio, col proprio stile e linguaggio, perché – vale la pena ripeterlo – non esiste a priori un modo esatto di raccontare qualcosa.

Lo stile di Javier Marías, per esempio, è prolisso e volutamente complicato, a la sua imitazione gratuita può far scivolare facilmente nel ridicolo. Ma è anche uno stile che, analizzato con cognizione di causa, può insegnare molto.
Nel suo Domani nella battaglia pensa a me troviamo appunto una morte descritta attraverso decine di pagine.

Il narratore si trova a casa, e nel letto, di Marta Téllez. Conosce la donna da due settimane, durante le quali l’ha vista tre volte. Il piano – ma è uno di quei piani che si condividono senza dirlo – è passare una notte di passione. Marta è sposata, ma il marito è all’estero e il figlio di due anni, dopo aver resistito a lungo, quasi volesse difendere l’onore paterno, finalmente si è addormentato. Il narratore e la donna hanno iniziato a svestirsi a vicenda, quando lei dice di sentirsi male. Non sa spiegarsi cos’ha, e si accuccia, priva di forze. La scena, che inizia con le riflessioni tutt’altro che banali del narratore sulla morte, si protrae a lungo prima di arrivare al momento cruciale:

Ma questo era un’altra cosa, un altro tipo di abbraccio non annunciato da nessun presentimento, e allora ho avuto la sicurezza di ciò che fino a quel momento non mi ero permesso di pensare, o di sapere che pensavo: ho saputo che quella cosa non era passeggera e ho pensato che poteva essere conclusiva, ho saputo che non era dovuta al pentimento né alla depressione né alla paura e che era imminente: ho pensato che stava morendo tra le mie braccia; l’ho pensato e all’improvviso mi è venuta meno ogni speranza di poter uscire da lì, come se lei mi avesse contagiato la sua ansia di immobilità e di quiete, o forse era già un’ansia di morte, ancora no, ancora no, ma ormai non posso più, non posso più. Ed è possibile che non potessi più, che ormai non ce la facessi più perché nel giro di pochi minuti – uno, due e tre; o quattro – l’ho sentita dire qualcosa d’altro e ha detto: <<<Dio mi, e il bambino>> e ha fatto un movimento debole e brusco, sicuramente impercettibile per chi fosse stato a guardarci ma che io ho colto perché ero attaccato contro di lei, come un impulso della sua testa che il corpo non è riuscito a registrare se non come sintomo e pallidamente, un riflesso fuggente e freddo, come se fosse stata la scossa non del tutto fisica che si prova in sogno quando si crede di cadere e si precipita o si rovina giù, un colpo della gamba che non ha più terreno sotto di sé e cerca di frenare la sensazione di discesa e di fardello e di vertigine – un ascensore che precipita – , di caduta e di gravità e di peso – un aereo che si schianta o il corpo che salta dal ponte al fiume – , come se proprio allora Marta avesse provato l’impulso di alzarsi e di andare a cercare il bambino ma non avesse potuto farlo altro che con il pensiero e con il sussulto. E nel giro di un altro minuto – e cinque; o sei – ho notato che se ne rimaneva ferma sebbene già lo fosse, cioè, è rimasta più ferma e ho notato il cambiamento della sua temperatura e ho smesso di sentire la tensione del suo corpo che si stringeva contro di me dandomi le spalle come se spingesse, come se volesse infilarsi dentro il mio corpo per trovare riparo e sfuggire da ciò che il suo stava soffrendo, una trasformazione inumana e uno stato d’animo sconosciuto (il mistero): spingeva la schiena contro il mio petto, e il culo contro il mio addome, e la parte posteriore delle cosce contro la parte anteriore delle mie, la sua nuca di sangue o di fango contro il mio collo e la sua guancia sinistra contro la mia guancia destra, mandibola contro mandibola, e le mie tempie, le sue tempie, le mie povere e le sue povere tempie, le sue braccia contro le mie come se non le bastasse l’abbraccio, e perfino le piante dei suoi piedi scalzi contro i miei calzati, premendoli, e lì le sue calze si sono smagliate contro le stringhe delle mie scarpe – le sue calze scure che le arrivavano a metà delle cosce e che non le avevo tolto perché mi piaceva quell’immagine antiquata –, tutta la sua forza spinta all’indietro e contro di me che mi invadeva, attaccati come se fossimo due siamesi nati uniti lungo i nostri corpi interi per non vederci mai o soltanto con la coda dell’occhio, lei dandomi le spalle e spingendo, spingendo all’indietro e quasi schiacciando, fino a quando tutto questo è cessato ed è rimasta ferma o più ferma, non c’è più stata pressione di nessun genere e neppure il gesto di appoggiarsi, e invece ho sentito il sudore sulla mia schiena, come se delle mani sovrannaturali mi avessero abbracciato di fronte mentre io abbracciavo lei e si fossero posate sulla mia camicia lasciandovi le loro orme giallastre e acquose e avessero incollato alla mia pelle la stoffa. Ho capito in quel momento che era morta, ma le ho parlato e le ho detto: <<Marta?>>, e ho ripetuto il suo nome e ho aggiunto: <<Mi senti?>> E subito ho detto a me stesso: <<È morta, – mi sono detto – questa donna è morta e io sto qui e l’ho vista morire e non ho potuto fare niente per impedirlo, e adesso ormai è tardi per chiamare qualcuno, perché qualcuno divida con me quello che ho visto>>.

 

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