Fame di Knut Hamsun

Fame, pubblicato nel 1890, è il romanzo che ha reso famoso Knut Hamsun in ambito internazionale. L’incipit è uno dei più noti di sempre:

A quel tempo ero affamato e andavo in giro per Christiania, quella strana città che nessuno lascia senza portarne i segni…

Christiania è il vecchio nome – tenuto circa fino agli anni venti del Novecento – della città di Oslo, e il narratore, scopriamo subito, vi si aggira affamato. La sua voce è nervosa, lunatica, spaventata e spaventosa, e nella seconda pagina ci spiega l’origine di tanti stenti:

Chi sa, pensavo, se tutte le mie ricerche di lavoro saranno vane? I numerosi rifiuti, le mezze promesse, i no chiari e tondi, le speranze nutrite e deluse, i nuovi tentativi sempre infruttuosi, tutto ciò aveva smorzato il mio coraggio.

Per vari motivi, il nostro non riesce a arruolarsi nei pompieri né a ottenere un posto da fattorino o contabile. L’unica sua entrata proviene da qualche articolo che riesce a piazzare presso un giornale, ma più il tempo passa più gli articoli meritevoli di pubblicazione si diradano. Quando poi, grazie a un colpo di fortuna o a un gesto di carità, il narratore riesce a mangiare qualcosa, il suo stomaco, oramai scombussolato dal digiuno, non assimila il cibo, causando al malcapitato fitte all’addome e conati di vomito. Nei momenti peggiori, per placare la fame, il protagonista tiene in bocca sassi o pezzi di legno, succhiandoli lentamente, finché:

Stavo morendo a occhi aperti abbandonato a me stesso. Infine mi misi l’indice in bocca e incominciai a succhiare. Allora il cervello incominciò ad agitarsi e un pensiero vi si formò timidamente, un’idea folle: e se mordessi? Senza riflettere chiusi gli occhi e strinsi i denti.
Mi alzai di scatto. Finalmente ero sveglio. Dal dito colava un filo di sangue. Lo leccai goccia a goccia. Non faceva male. La ferita era insignificante. Ma di botto avevo ripreso conoscenza. Crollai il capo, mi avvicinai alla finestra, cercai una benda per la ferita. Mentre mi fasciavo, gli occhi mi si inumidirono. Piangevo in silenzio: quel dito esile e morsicato era tanto triste! Dio del cielo, a quel punto ero arrivato?

La caratteristica delle riflessioni del narratore è l’alternanza tra sconforto totale e impeti di ottimismo. In certi momenti, infatti, nonostante la drammaticità della sua situazione e i numerosi fallimenti, il narratore ricorda a sé stesso le proprie qualità, mostrandosi, oltre che sicuro di sé, anche superbo.

Questi cambi di umore lo portano, per esempio, a regalare a qualcuno – una cameriera, una venditrice ambulante, un senzatetto – i soldi che occasionalmente ha in tasca.

Del resto, la fame di cui si parla non è solo quella derivante da una scarsa alimentazione; è fame di obiettivi, di stimoli, di rapporti umani, di vita.

Questa fame è aumentata dalla povertà perché, secondo il narratore, la povertà amplifica la sensibilità:

Il povero intelligente è un osservatore assai più sottile che non il ricco intelligente. A ogni passo che fa, il povero si guarda intorno e tende l’orecchio diffidente a tutte le parole di coloro che incontra. Ogni suo passo presenta, per così dire, un compito, una fatica ai suoi pensieri e sentimenti. Egli ha l’udito acuto e sensibile, è esperto e ha l’anima segnata di cicatrici…

 

Consigli di lettura su romanzi della letteratura europea:

Memoria di ragazza di Annie Ernaux

Una storia tra due città di Charles Dickens

Memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar

Trilogia della città di K. di Agota Kristoff

Share

Leave a Comment

Your email address will not be published.